vendredi 29 novembre 2019

“L’Isis è tra noi: è un modo di pensare”



Colloquio con Maha Hassan, scrittrice curdo-siriana oggi esule in Francia. Fascismo e discriminazione di genere. Aleppo e il ricordo della nonna armena

Maha Hassan (da http://www.pugliaeccellente.info/maha-hassan-racconta-la-siria-al-liceo-socrate-di-bari/)
«Ho reagito scrivendo». La voce morbida di Maha Hassan sintetizza il percorso della sua vita fino a qui. Tutto quello che le è accaduto, le sofferenze, il divieto di pubblicazione delle sue parole “sconvenienti” nella terra in cui è nata, l’esilio, le ingiustizie subite in quanto donna e gli occhi giudicanti della società, quando i costumi locali proibiscono anche un sussurro se non ti uniformi agli altri.
Maha Hassan è una scrittrice e giornalista curdo-siriana nata ad Aleppo e laureata in Legge nell’università della città. Nel 2011 il suo romanzo Umbilical cord è stato nominato per il “Booker”, l’International Prize for Arabic Fiction; in italiano è stato pubblicato il romanzo I tamburi dell’amore (Poiesis editrice, traduzione di Federica Pistono) e a breve arriverà nel nostro Paese anche un altro titolo, Metro of Aleppo, sempre con lo stesso editore.
Maha Hassan oggi vive a Parigi: è stata costretta a lasciare la Siria diversi anni fa, molto prima dell’inizio della guerra, e scrive le sue storie sia in arabo sia in francese. La incontriamo in occasione del festival “Conversazioni sul futuro”, a Lecce. Città che, nelle vie del centro storico e per le persone in strada anche dopocena in pieno autunno, le ricorda la sua Aleppo. «Nel mio libro Metro of Aleppo – spiega Hassan –, la protagonista, una curda siriana, ogni volta che prende la metro di Parigi si sente come fosse a casa perché, quando esce dal vagone, legge sulle insegne parole scritte in francese proprio come nella sua città d’origine. Poi accade – continua la scrittrice –che la giovane si perde e non riesce ad uscire dalla metropolitana. Così un signore le chiede: “Ma lei dove sta andando”? E lei risponde: “Vorrei andare ad Aleppo”. Questo è un tipico choc da esilio».
Come la sua protagonista anche lei ha scelto l’esilio: nel 2004 è stata costretta a lasciare la Siria e ha chiesto asilo politico in Francia. Perché?
Il 2004 in Siria ha rappresentato l’inizio della rivoluzione curda, antesignana della primavera araba. La situazione era instabile, ero stata schedata dal governo perciò ho scelto di lasciare il Paese. Sono siriana e sono curda, oggi li considero due vantaggi anche se fino a qualche anno fa non dicevo mai di essere una curda. La Siria ora fa i titoli dei giornali. Al Baghdadi è stato un nemico del popolo siriano e curdo, ma il ritiro di Trump ha permesso a Erdoğan di considerarci suoi bersagli. E poi sono una donna.
Cosa vuol dire essere una donna specialmente in una zona di conflitto?
Il nostro corpo non appartiene a noi, è della famiglia, della tribù. Mio padre, comunista, mi diceva: “Non puoi venire alle manifestazioni. Se ti prendono, sarai stuprata dalla polizia”. In quelle parole c’era anche la volontà di proteggere il suo onore perché la politica utilizza il corpo delle donne.
Lei ha usato parole emozionanti e dure allo stesso tempo, parlando del corpo delle donne curde in guerra. Lo ha fatto, ad esempio, per l’orrore perpetrato sul cadavere di Hevrin Khalaf, la politica curdo-siriana leader del Future Syria Party, uccisa da una milizia appoggiata dalla Turchia durante l’operazione militare turca nel Nordest della Siria. E, ancora, in merito al video sulla combattente curda Cicek Kobane, ferita e catturata dalle milizie jihadiste alleate di Ankara.
Ho letto tanti commenti di odio sui social che colpevolizzavano queste donne. In tanti non mettevano in discussione la guerra, ma il fatto che una donna stesse lì, in divisa, con le armi o a capo di un partito per fare politica. Isis vive tra di noi ma noi non lo vediamo perché alla fine Isis è una mentalità, se si giustifica o si difende chi uccide una donna.
Qual è il suo messaggio per scuotere chi non sa nulla di quanto sta accadendo in Turchia e in Siria contro le donne?
Io scrivo. Credo fortemente nella forza delle parole, e spero che magari qualche parola cada nell’orecchio di qualcuno e possa indurre il cambiamento. D’altronde, anche io sono stata cambiata dalle parole, la letteratura mi ha salvata quando ero una bambina. Sono però anche molto delusa perché è da 30 anni che scrivo, partecipo ad eventi, svolgo dei discorsi pubblici e parlo di cose che ancora mi provocano una forte emozione, pur se appartengono al passato, e mi viene anche da piangere. Allora mi chiedo: come posso scuotere le persone? Anche quanti “hanno bisogno di essere scossi” devono venirmi incontro, il rapporto deve essere bilaterale; chi viene ad ascoltarmi si vuole impegnare o si limita a udirmi? In quei territori in guerra ho delle cugine; ho un’amica, alla quale tengo moltissimo, che era ad Afrin (cantone curdo-siriano nel Nordest della Siria che la Turchia ha occupato a inizio 2018, ndr), poi è andata in esilio e ora è a Qamislo, dove è esposta a grosse minacce in seguito all’ultima operazione militare di Erdoğan, quella denominata “Sorgente di pace”. Vedo noi curdi come gli ebrei di oggi. Mi identifico molto nella loro storia, e provo un grande senso di vergogna perché, purtroppo, essa non ha insegnato niente. Nel secolo scorso, le atrocità ai danni degli ebrei sono state perpetrate nel silenzio generale. Ma adesso, in questa società così connessa, tali nefandezze non dovrebbero riprodursi. Sono molto delusa e ho anche molta paura.
In Italia ancora oggi, dopo diversi episodi gravi raccontati dalla cronaca, c’è chi nega un ritorno alla mentalità fascista, al linguaggio d’odio contro ebrei e altre minoranze. Come spiegherebbe a un ragazzo italiano cosa sono il fascismo e la mentalità oppressiva?
Il fascismo si realizza quando una persona, o un’autorità, si limita a considerare qualcun altro soltanto per una questione di sangue, senza altre ragioni. All’inizio del mio lavoro non mi identificavo come una curda, ma per Erdoğan non c’è niente da fare: sono una curda e basta, quindi un nemico, ed è un po’ ciò che alimenta il fascismo e il razzismo dappertutto. Per esempio, se pensiamo a Erdoğan e al Pkk, chiaramente si tratta di un problema politico, ma nel calderone entriamo anche noi cittadini. Se Erdoğan ha un problema politico con il Pkk dovrebbe risolverlo politicamente, invece il presidente turco promuove una guerra contro un’intera etnia. Per questo il fascismo è un’ideologia cieca, assolutamente incapace di giudicare e di vedere, e con un livello di odio debordante. Ai giovani direi che devono evitare di avere una “mentalità fascista” nel giudicare le persone soltanto per il sangue che scorre nelle vene, senza conoscerle, senza incontrarle. Nella maggior parte dei casi, i preconcetti che si possono avere prima di conoscere persone nuove sono falsi.
Quando ha preso la decisione di voler diventare una scrittrice?
Non si è trattato di una vera e propria decisione. Avevo una passione per il teatro e volevo diventare un’attrice, ma vivevo in una società molto chiusa. Mio padre non avrebbe mai accettato, e non ha accettato, infatti, che io facessi l’attrice. Quindi ho reagito cominciando a scrivere dei lavori teatrali. E così mi sono resa conto che potevo andare oltre il teatro: ho capito che la scrittura mi piaceva. in altre parole, come la protagonista del mio libro, ho dato una risposta un po’ di choc. La scrittura non è stata il mio primo sogno, ma una reazione a qualcosa che mi veniva proibito di fare. Ora però non immaginerei niente di diverso per me.
La prima cosa che ha pubblicato è stata su un tema erotico, quindi un argomento molto “problematico” in una società chiusa e maschilista. Come è andata?
Ho pubblicato fuori dal mio Paese, su Al naqed, un magazine di Beirut. Molti siriani, intellettuali e artisti in genere, hanno sempre guardato al Libano come al nostro “mare aperto”. Molti dissidenti da noi in Siria, infatti, hanno deciso negli anni di trasferirsi nel Paese dei cedri proprio per questa ragione, il che è un po’ strano: il Libano sembra un Paese più libero, ma è stato per molto tempo sotto il controllo del padre dell’attuale presidente siriano Bashar Al Assad. In Libano si respirava una specie di libertà, non proprio la libertà vera. Ero molto giovane, e provenivo da una famiglia altamente conservatrice, quindi mi ribellavo molto. Noi ragazze avevamo diritto a ballare, anche di uscire, purché non esternassimo le nostre emozioni. Non parliamo poi di sessualità: era assolutamente un tabù. Perciò, quando ho scritto questo romanzo con connotazioni erotiche, ho agito come tutti gli altri siriani: ho trovato un editore in Libano, Riad El Rayyes, la sua casa editrice porta il suo nome, e da lì è iniziato tutto.
Un libro che le ha creato molti problemi.
Nel nostro incontro l’editore mi ha detto che tutti pensavano che io fossi un uomo e che Maha Hassan fosse uno pseudonimo. Per questo mio primo romanzo ho avuto molti problemi ad Aleppo, dove la società è molto chiusa, soprattutto per le donne, e molto machista. Tutti mi guardavano e sparlavano di me, nei caffè, per strada. Un giorno qualcuno mi si è avvicinato chiedendomi perché avessi scritto quel testo, se sentissi la mancanza di un uomo e via dicendo. Ciò mi ha collocata quasi in un carcere, in una sorta di isolamento etnico-sessuale, tenendomi fuori dal resto della società. In quel periodo lavoravo in un ufficio: un giorno il mio capo, una donna, ha convocato tutte le altre impiegate, pensavo fosse un incontro informale per un brindisi o un caffè, e invece ho scoperto che ero un’imputata e quello era un tribunale. Il mio capo chiese infatti alle altre colleghe che cosa pensavano del mio scritto, se lo giudicavano scandaloso. Ricordo la mia assoluta incapacità di controllare la collera e quindi risposi accusandole di essere conservatrici: non avevo le armi culturali o l’esperienza per rispondere in una maniera diversa. Avevo contro le mie colleghe, la società intellettuale, per la maggior parte costituita da uomini, e anche la mia famiglia, che all’epoca non sapeva niente, e molte volte mi sono sentita dire che avrei fatto morire mio padre, se avesse saputo del mio libro e delle critiche.
E oggi, che da curda siriana vive in esilio ed è anche francese, a che punto è il suo percorso identitario?
Sto per finire un libro che ho scritto in francese e sono alla ricerca di un editore. In questo nuovo lavoro racconto un po’ la mia identità. Parto dalla storia di mia nonna armena che a 5 anni ha visto la sua intera famiglia massacrata, perciò è stata portata ad Aleppo, la sua identità è stata nascosta e le hanno dato un nome musulmano, così è stata adottata da una famiglia musulmana. Quando mia nonna si è sposata, suo marito, un vedovo, le ha dato l’identità della defunta moglie: la sua morte non era stata ancora registrata. Naturalmente ciò ha avuto ripercussioni in tutte le generazioni della mia famiglia. In tutto questo vedo il ripetersi di una lunga storia che arriva fino a me. Anch’io non avevo, e non ho, un’identità fissa, il che può essere talvolta una ricchezza, posso essere quello che voglio. Però provo un senso di vuoto enorme, a salvarmi è solo la forza della letteratura. Mi dico che il destino mi ha scelta affinché scrivessi la storia di tutte le persone venute al mondo prima di me e che erano analfabete. Immagino un “dio della scrittura” che mi ha permesso di dare loro voce. Mi sento Maha, ma quando scrivo mi sento tutte le donne che mi hanno preceduta.
Qual è la prima immagine che le viene in mente di Aleppo?
L’odore di mia nonna. Penso a lei e alla città vecchia di Aleppo. A me piace dire “mia nonna armena”, anche se lei si è nascosta per tutta la vita: aveva un odore che veniva proprio dal suq della città. Lì, prima della guerra, c’erano venditori di spezie, di hennè e di sapone che sprigionavano un odore molto penetrante che forse era l’odore di mia nonna.
(Ha collaborato Lucia Sollecito)
Antonella De Biasi, giornalista e saggista. È stata redattrice del settimanale “la Rinascita”. È coautrice e curatrice di Curdi (Rosenberg & Sellier 2018)

samedi 19 octobre 2019

Pour lutter contre le terrorisme en France, ne laissons pas Erdogan attaquer la Syrie

Comme tous les français, j’ai été attristée par l’attaque à la préfecture de police de Paris, le jeudi 3 octobre. Mais ma tristesse, peut être, dépasse celle des français, car je suis aussi kurde syrienne. Je me présente toujours comme française d’origine kurde. En Syrie, je n’avais pas le sentiment d’être citoyenne, mais j’en suis devenue en France ; une citoyenne.


Dimanche soir, le 6 octobre 2019, j’ai suivi le débat avec les invités au France 5 venus parler du film « Sœurs d’armes » de Caroline Fourest.
SOEURS D'ARMES Extraits + Bande Annonce (2019) Camélia Jordana, Drame © Bandes Annonces Cinéma
J’ai été stressée en écoutant la journaliste Caroline Fourest et l’actrice Amira Casar, en ayant peur qu’ils se trompent au sujet de mon pays. La présence de l’écrivain Patrice Franceschi, auteur de ‘Mourir pour Kobané‘, connu pour son engament pour la cause kurde me rassurait.

En tant de kurde, je sais que les ennemis d’Erdogan ne sont pas les islamistes mais les kurdes. J’ai peur, non seulement pour les kurdes, mais aussi pour les français.

J’étais fière d’écouter ces trois gens formidables, qui mettent en lumière la lutte des femmes kurdes. Pour moi, l’apparence des femmes Peshmerga est un symbole de la destruction de l’État Islamique ; nous savons que les femmes kurdes ont combattu des membres de Daech et le film de Caroline Fourest montre aussi cela.
Donc j’ai eu un sentiment partagé : triste pour la morte de policiers à la préfecture, mais rassurée par l’existence des combattants kurdes et leurs amis français.
Lundi matin, le 6 octobre, les réseaux soucieux étaient saturés par le tweet de Donald Trump qui a décidé le retrait des soldats américains du côté syrien de la frontière avec la Turquie.
En tant de kurde, je sais que les ennemis d’Erdogan ne sont pas les islamistes mais les kurdes. J’ai peur, non seulement pour les kurdes, mais aussi pour les français.
L’expérience de bataille d’Afrine, baptisée « Opération Rameau d’Olivier » par l’armée turque contre les forces kurdes, avait rempli cette zone kurde laïque de comportements religieux islamiques étrangers aux habitants de cette région.

Aujourd’hui, si on laisse à nouveau la Turquie rentrer au Rojava, cela augmentera encore les activités d’État Islamique.

Avant cette bataille, mes amis du Rojava m’ont parlé du mode de vie civile et de l’égalité entre les femmes et les hommes. Ils me poussaient à venir voir sur place cette démocratie incroyable, malgré la guerre et les ennemis de la liberté.
Tout cela s’est écroulé avec l’offensive de l’armée islamique aux ordres d’Erdogan. Cette armée qui considère les kurdes comme des ennemis contrairement aux islamistes intégristes.
Aujourd’hui, si on laisse à nouveau la Turquie rentrer au Rojava, cela augmentera encore les activités d’État Islamique.
Je parlerai un jour du rôle d’Ankara qui soutient les islamistes. En attendant je vous partage le lien d’un film qui vient de paraitre intitulé  « Turquie… La sage-femme qui a créé ISIS » de Shiar Nayyo. Ce film qui explique comment la Turquie a participé activement à la création de l’Etat Islamique.
Turkey.. "The midwife that created ISIS" - تركيا.. "القابلة التي أنجبت داعش" © AVA Films

Je n’arrête pas de me poser la question, plus précisément, depuis l’attentat du 7 janvier 2015 contre Charlie Hebdo : que puis-je faire ?

Mardi matin, j’ai suivi à la télévision l’hommage rendu aux quatre fonctionnaires de la préfecture de police de Paris, tués ce 3 octobre lors de l’attaque perpétrée par Mickaël Harpon.
La révélation de la découverte d’une clé USB appartenant à Mickaël Harpon aggrave la situation. Selon Le Parisien, cette clé contient trois éléments à charge: « des fichiers informatiques avec de nombreuses vidéos de décapitation de Daech ».
En tant que journaliste et écrivaine française et kurde, je me trouve concernée deux fois par cette interconnexion: le terrorisme islamique en Syrie qui touche la France. Je suis consternée par mes deux cœurs qui battent en même temps, le français et le kurde.
Je n’arrête pas de me poser la question, plus précisément, depuis l’attentat du 7 janvier 2015 contre Charlie Hebdo : que puis-je faire ?
Et je pense que je pourrais faire plein de choses. Le rôle que je pourrais jouer, c’est d’expliquer comment nous pouvons libérer les bons musulmans des mauvais, et également sauver l’image de l’Islam des escrocs qui la manipulent !
Le premier point commun que je trouve dans la majorité des tueurs au nom de l’Islam, c’est que ces gens sont nés en Europe et qu’ils ne parlent pas bien la langue arabe, la langue du Coran. Ils ont appris l’Islam radical par des malfaiteurs qui ont leurs agendas politiques. Donc cet Islam, soit-disant djihadiste, n’a rien avoir avec l’Islam que nous l’avons connu et vécu dans les pays arabes.

Nous avons besoin aujourd’hui en France, je pense, de présenter une autre image de l’islam ; une histoire ouverte, tolèrante et libre.

Je parle toujours, comme écrivain, de ma grand-mère kurde musulmane qui m’a inspirée pour écrire mes premiers romans en arabe. Halima était la mère d’un fils communiste ; mon père.
Elle voyait mon père boire de l’alcool et elle priait près de lui en s’adressant au ciel pour protéger son fils. Gamine, je n’avais pas encore trouvé mon chemin. J’ai avoué à ma grand-mère que je suis athée, et en même temps, je l’accompagnais à la mosquée de quartier pendant le mois de Ramadan et je priais avec elle.
Ma grand-mère ne me l’a jamais reprochée, elle m’acceptait comme j’étais en espérant que Dieu m’oriente vers le bon chemin.
Voici un Islam que les tueurs ne connaissent pas, un islam spirituel et tolérant. Je suis née musulmane, d’un père laïque et d’une mère pratiquante, mais j’ai eu la chance de vivre la religion comme une tradition, pas comme une confession sacrée.
Ma mère n’hésitait pas à goûter, par curiosité, le verre de mon père, puis elle demandait à Dieu de la pardonner. Ma mère, ma grand-mère et beaucoup des femmes et d’hommes musulmans voyaient le Dieu comme tolérant, pas comme un gardien de prison, cette image imposée par les escrocs qui appellent à tuer les autres au nom de Dieu !
Grâce à mon éducation, j’ai grandi avec la critique de cette tradition et j’ai échappé à l’enfermement d’un culte éternel.
Nous avons besoin aujourd’hui en France, je pense, de présenter une autre image de l’islam ; une histoire ouverte, tolèrante et libre.
Je pense énormément aux enfants français de Daech, ceux qui étaient avec leurs parents en Syrie ou en Irak. Ces enfants vont jouer un jour leur rôle en France, c’est pourquoi je me sens responsable de me lutter pour l’avenir, même si le présent est encore noir pour moi et je ne sais pas a qui le tour demain d’être encore assassiné par ce terroriste, mais il ne faut pas baisser les bras, nous avons besoin d’ouvrir un dialogue libre pour arracher les garnis terroristes, car Daech est une tendance cultuelle et moral, et pour la détruire, il ne faut une arme culturelle.
Nous pouvons combattre ce terrorisme en ouvrant les portes aux défenseurs de la liberté: les kurdes en Syrie. Il faut les protéger militairement et politiquement, et aussi communiquer avec « les intellectuels » engagés en faveur de la liberté religieuse culturelle.
La guerre contre Daech est divisée en deux flancs : sur le terrain en Syrie, et en France ; et partout, pour la gagner, il nous faut chacun lutter à sa manière.
Je suis une femme kurde française, mon combat est en France, contre les idées terroristes qui menacent mon pays « Kurdistan » et menacent également le futur de mon pays « France ». Nous, kurdes libres, femmes combattantes, journalistes, écrivains, chercheurs… notre grande responsabilité aujourd’hui est de travailler ensemble. Nous sommes tous des cibles de Daech, et nous sommes tous leurs ennemis.
Article de Maha Hassan

Noi, i nemici del terrorismo islamico

Come tutti i francesi, sono rattristata dall’attacco al quartier generale della polizia di Parigi giovedì 3 ottobre. Ma la mia tristezza, forse, supera quella dei francesi, perché sono anche curdo-siriana. Mi presento sempre come francese di origine curda. In Siria non mi sentivo una cittadina, ma lo sono diventata in Francia; una cittadina. Ho due cuori, uno francese e uno curdo. Oggi entrambi sono spezzati.
Domenica 6 ottobre 2019, ho seguito il dibattito serale con gli ospiti del programma France 5 che sono venuti a parlare del film Sœurs d’armes di Caroline Fourest.
Mi stressavo ascoltando la giornalista Caroline Fourest e l’attrice Amira Casar, temendo che dicessero qualcosa di inesatto sul mio paese. La presenza della scrittrice Patrice Franceschi, autrice del testo Mourir pour Kobané, nota per il suo impegno nella causa curda, mi ha rassicurata.
Ero orgogliosa di ascoltare queste tre grandi personalità che sottolineavano la lotta delle donne curde. Per me, l’apparizione delle donne Peshmerga è un simbolo della distruzione dello Stato Islamico; sappiamo che le donne curde hanno combattuto contro i membri del Daesh, fatto dimostrato anche nel film di Caroline Fourest.
I miei sentimenti erano divisi: mi sentivo triste per la morte degli agenti di polizia nella prefettura, ma allo stesso tempo rassicurata dall’esistenza dei combattenti curdi e dei loro amici francesi.
Lunedì mattina, 6 ottobre, i social network sono impazziti dopo il tweet di Donald Trump che ha deciso di ritirare i soldati americani dalla parte siriana del confine con la Turchia.
Come curda, so che i nemici di Erdogan non sono gli islamisti ma i curdi. Temo non solo per i curdi, ma anche per i francesi.
L’esperienza della battaglia di Afrine, soprannominata “Operazione Rameau d’Olivier” dall’esercito turco contro le forze curde, aveva introdotto nella zona laica curda la religione islamica, estranea agli abitanti di questa regione.
Prima di questa battaglia, i miei amici di Rojava mi parlavano del modo di vivere civile e dell’uguaglianza tra donne e uomini. Mi hanno esortato a venire a vedere questa incredibile democrazia, nonostante la guerra e i nemici della libertà.
Ma questo stile di vita si è dileguato a seguito dell’offensiva sotto gli ordini di Erdogan dell’esercito islamico, che considera i curdi come nemici in contrasto con gli islamisti fondamentalisti.
Se la Turchia potrà tornare di nuovo nel Rojava, ciò aumenterà ulteriormente le attività dello Stato islamico.
Un giorno parlerò del ruolo di Ankara che sostiene gli islamisti. Nel frattempo, condivido il link di un film appena uscito intitolato Turquie… La sage-femme qui a créé ISIS di Shiar Nayyo. Questo film spiega come la Turchia abbia partecipato attivamente alla creazione dello Stato islamico.
Martedì mattina ho visto in televisione l’omaggio reso ai quattro funzionari del quartier generale della polizia a Parigi, uccisi il 3 ottobre durante l’attacco perpetrato da Mickaël Harpon.
La rivelazione della scoperta di una chiave USB appartenente a Mickaël Harpon peggiora la situazione. Secondo Le Parisien, questa chiavetta contiene “file con numerosi video riguardanti la decapitazione di Daesh”.
Come giornalista e scrittrice francese e curda, sono doppiamente preoccupata per questa interconnessione: il terrorismo islamico in Siria, che colpisce la Francia. Sono sgomenta per i miei due cuori, che battono allo stesso tempo, quello francese e quello curdo.
Continuo a pormi la domanda, più precisamente dal 7 gennaio 2015, il giorno dall’attacco contro Charlie Hebdo: cosa posso fare?
E penso che potrei fare molte cose. Potrei spiegare come liberare i musulmani buoni dai cattivi e anche salvare l’immagine dell’Islam dagli imbroglioni che la manipolano!
Il primo punto in comune che trovo nella maggior parte degli assassini in nome dell’Islam è che queste persone sono nate in Europa e non parlano bene la lingua araba, la lingua del Corano. Hanno imparato l’Islam radicale dai criminali che hanno i loro programmi politici. Quindi questo Islam, presumibilmente jihadista, non ha nulla a che fare con l’Islam che abbiamo conosciuto e vissuto nei paesi arabi.
Parlo ancora come scrittrice di mia nonna musulmana curda che mi ha ispirato a scrivere i miei primi romanzi in arabo. Halima era la madre di un figlio comunista: mio padre.
Vide mio padre bere alcolici e lo pregò di smettere, rivolgendosi al cielo per proteggere suo figlio. Gamine, non avevo ancora trovato la mia strada. Ho confessato a mia nonna di essere atea e allo stesso tempo l’ho accompagnata alla moschea del quartiere durante il mese di Ramadan e ho pregato con lei.
Mia nonna non mi ha mai rimproverato per questo, mi ha accettato perché sperava che Dio mi indicasse la strada giusta.
Ecco un Islam che gli assassini non conoscono, un Islam spirituale e tollerante. Sono nata musulmano, da padre laico e madre praticante, ma sono stata fortunata a vivere la religione come una tradizione, non come una sacra confessione.
Mia madre non esitò ad assaggiare, per curiosità, il bicchiere di vino che beveva mio padre. Poi chiese a Dio di perdonarla. Mia madre, mia nonna e molte donne e uomini musulmani vedevano un Dio tollerante, non come una guardia carceraria. Questa è un’immagine imposta dagli imbroglioni che reclutano adepti per uccidere gli altri in nome di Dio!
Grazie alla mia educazione, sono cresciuta valutando in maniera critica questa tradizione e sono sfuggita alla prigionia di un’adorazione eterna.
Oggi in Francia abbiamo bisogno di presentare un’altra immagine dell’Islam; una storia aperta, tollerante e libera.
Penso molto ai bambini francesi di Daesh, quelli che erano con i loro genitori in Siria o Iraq. Questi bambini giocheranno un giorno il loro ruolo in Francia, ecco perché mi sento responsabile della lotta per il futuro, anche se il presente è ancora nero per me e non so a chi toccherà essere assassinato domani da questo terrorista. Ma non dobbiamo arrenderci, dobbiamo aprire un dialogo libero per strappare il terrorismo al terrorista, perché Daesh è una tendenza culturale e morale e per distruggerlo abbiamo bisogno di un’arma culturale.
Possiamo combattere il terrorismo aprendo le porte ai difensori della libertà: i curdi in Siria. Dobbiamo proteggerli militarmente e politicamente e anche comunicare con “intellettuali” impegnati nella lotta per la libertà religiosa culturale.
La guerra contro Daesh è divisa su due fronti: sul terreno in Siria e in Francia; e ovunque, per vincerla, ognuno deve combattere a modo suo.
Sono una donna curdo-francese, la mia lotta è in Francia, contro le idee terroristiche che minacciano il mio paese “Kurdistan” e minacciano anche il futuro del mio paese “Francia”. Noi curdi liberi, donne combattenti, giornaliste, scrittrici, ricercatrici… la nostra grande responsabilità oggi è lavorare insieme. Siamo tutti bersagli di Daesh e siamo tutti loro nemici.
Maha Hassan
Traduzione di Eva Serio
versione originale: https://www.oeil-maisondesjournalistes.fr/author/maha-hassan/

vendredi 7 juin 2019

Warum diese Strafe.. Warum dieser Fluch?

Meine Finger zittern vor der Kälte, weil ich beim Arbeiten gerne das Fenster offen lasse. Ich schließe das Fenster, wickele einen Schal um meinen Hals und vergrabe meine Finger darin, damit mir schnell warm wird. Ich schaue auf meine Fingerspitzen während ich sie anhauche, entgleite dem Hier und Jetzt und lange Vergangenes kehrt in mein Bewusstsein zurück.

Damals, an jenem Morgen, hatten meine Finger auch gezittert. Ich erinnere mich nicht mehr, warum ich zu spät zur Schule kam – war ich unkonzentriert? Oder war meine Mutter schuld, da sie es versäumt hatte mich rechtzeitig zu wecken? Ich weiß es nicht genau.
Ich ging in die fünfte Klasse der Grundschule und war eine überragende Schülerin, die Lieblingsschülerin meine Lehrerin Fadwa. In den Pausen ließ sie mich bei ihr bleiben, und während die anderen Mädchen draußen spielten, half ich ihr, die Hausaufgaben und Klassenarbeiten zu korrigieren. Sie vertraute mir und warf nur einen flüchtigen Blick auf die Bewertungen, die ich in rot neben die Antwort geschrieben hatte. Dann zählte sie die Punkte zusammen und schrieb das Endergebnis unter die Klassenarbeit.
An jenem Morgen kam ich zu spät und fand mich einer Vertretungslehrerin gegenüber. Mit finsterem Gesicht befahl sie mir, stehenzubleiben, und begann mich wegen meines Zuspätkommens auszuschimpfen. Dabei war ich nur paar Minuten zu spät, was bei uns  Mädchen in der fünften Grundschulklasse dauernd vorkam. Unterwürfig blieb ich stehen und ließ ihre Standpauke über mich ergehen. Dann forderte sie mich auf, meine Hand auszustrecken, um meine Strafe in Form von Stockschlägen zu erhalten.

Ich war schockiert und blickte meine Mitschülerinnen hilfesuchend an, aber es gab kein Entkommen. Das Gesicht der Vertretungslehrerin Nezha war schweissnass vor Wut als sie mir drohte, dass mich weitere Stockschläge erwarten würden, sollte ich das Ausstrecken der Hände weiter hinauszögern.

Ich streckte meine Hand aus und begann noch vor dem ersten Schlag zu weinen. Meine Hände waren eiskalt und die Schläge fühlten sich wie Elektroschocks anIch weinte wegen des Schmerzes, aber noch mehr weinte ich wegen des Schocks und der Demütigung. Während ich noch zu meinem Platz zurückging, trafen weitere verspätete Schülerinnen ein, die allesamt den Stock der Vertretungslehrerin zu spüren bekamen.
Nezha hatte am Tag der Übernahme unserer Klasse entschieden, uns nach ihrer Art zu erziehen: Zu Gehorsam und Unterwürfigkeit. Noch lange begleitete mich dieses Gefühl des Unrechts, dass ich an jenem Tag empfunden hatte. Es war der erste Schlag auf meine kalte Hand.
In der Grundschule hatten wir eine Lehrerin für alle Hauptfächer, und eine weitere Lehrerin für die sogenannten Erholungsfächer, wie Zeichnen und Sport. Der Unterricht in diesen Fächern fiel meistens aus, statt dessen wurden der Stoff der Hauptfächer unterrichtet. Es war Fadwa, unsere Lieblingslehrerin,  die in solchen Fällen einsprang. Sie war unsere einzige wirkliche Lehrerin, nur sie konnte uns einschätzen und sehr selten kam es vor, dass sie uns bestrafte. Zwar machte sie manchmal Anstalten, uns mit dem Stock zu schlagen, lachte dann aber, wenn eine von uns ängstlich die Hand ausstreckte, und bestrafte uns doch nicht.

In der Mittelschule lernten wir schlimmere Arten der Bestrafung kennen, und mussten feststellen, wie sanft es in der Grundschule noch zugegangen war.

Dort gab es viele Lehrerinnen, eine für jedes Fach: Sport, Physik, Geschichte, religiöse Erziehung, Heimatkunde, … Dort lernte ich ein Fach kennen, welches meine Vorstellungen von Unterricht und Schule auf den Kopf stellte: Militärische Erziehung. Es gab spezielle Lehrer für dieses Fach, die sogenannten Jugendausbilder.
Sabah war die erste Jugendausbilderin, die ich in meinem Schulleben kennen lernte. Ich hatte gedacht, sie würde mich bevorzugt behandeln, weil ich aus ihrem Viertel komme. Wir lebten in der gleichen ärmlichen Gegend, in der es keine Mittelschule gab. So kam es, dass ich die Al-Nil Schule  besuchte, auf die Mädchen wohlhabender Viertel gehen.
Sabahs Art, den Klassenraum zu betreten, hatte etwas furchteinflößendes. Allein der Klang ihrer kräftigen Stimme genügte, um uns vor Angst zittern zu lassen. Beim morgendlichen Fahnenappell brauchte sie kein Mikrophon um die Masse der Schülerinnen in Schach zu halten. Immer wieder sagte sie “stillgestanden” und “rührt euch”, zwei Worte an deren ständige Wiederholung wir uns im Laufe der Jahre gewöhnt hatten, jeweils mit den dazugehörigen Bewegungen unserer Füße.
Ich selbst wurde von Sabah nie bestraft, hatte aber Angst, als ich meine Freundin Aruba vor Schmerzen weinen sah, während sie über den Schulhof kroch. Ihre Hose war an den Knien durchgescheuert und ein wenig Blut war zu sehen. Nie wieder sah ich Aruba so gebrochen, wie an diesen Tag. Ausgerechnet sie, die sich für etwas Besseres hielt, weil sie in einer Villa mit einer massiven Eisentür wohnte, wo sie nicht wie wir, in unserer ärmlichen Gegend, von lärmenden Nachbarn belästigt wurde.

Die Frauen des Viertels redeten schlecht über Sabah und nahmen auch vor den mit ihr verwandten Nachbarinnen kein Blatt vor den Mund. Ich hingegen hoffte, mithilfe dieser Verwandten eine Beziehung zu Sabah aufzubauen, um so ihren Strafen zu entgehen. Jene Strafen, deren Vorstellung allein mich bereits erzittern ließ.

Nach der dreijährigen Mittelschule setzte sich unser Martyrium dann an der Oberschule fort, aber nachdem ich mich an Sabah gewöhnt hatte, konnten mich die Jugendausbilderinnen dort nicht mehr überraschen. Wer mich hingegen schockierte war meine Mitschülerin Thana, die zu den sogenannten “Fallschrimspringerinnen” gehörte, einer paramilitärischen Organisation der Bath-Partei. Sie hatte nicht nur Macht über die Schülerinnen und Lehrerinnen, sondern auch über den Schuldirektor und seine Ehefrau. Niemand war so gewalttätig und rücksichtslos wie sie, dabei war sie doch eine Schülerin wie wir.
Es war ihr erlaubt, die Tür des Klassenzimmers aufzutreten und in den Unterricht der Arabischlehrerin, einer charakterschwachen Person, die Angst vor ihr hatte, hineinzustürmen. Dann forderte sie uns auf, aufzustehen und den Leitspruch der Baath-Partei aufzusagen: “Eine Arabische Nation, mit einer ewigen Mission.” Dann mussten wir die Ziele der Partei wiederholen: “Einheit, Freiheit, Sozialismus”. Diese Sprüche können alle Syrerinnen und Syrer auswendig.
Meine Finger sind inzwischen wieder warm geworden und ich stehe auf, um das Fenster erneut zu öffnen. Ich genieße diese Kälte, die mich in Zeit willkürlicher Bestrafungen zurückversetzt hat, unter der wir Schülerinnen und Schüler zu leiden hatten, ohne das wir uns etwas Konkretes zu schulden hätten kommen lassen, und deren einziger Zweck darin bestand, uns unterwürfig zu machen und zu demütigen.

Jetzt, wo Syrien in Trümmern liegt, frage ich mich: Liegt ein Fluch auf diesem Land? Waren die vielen Strafen, durch die damals unser Wille gebrochen wurde, Ausdruck desselben Fluches, der nun überall im Land in jedem Moment spürbar ist?

Was haben wir Syrer getan, dass wir diese Bestrafung verdienen? Am Anfang waren es die Vertretungslehrerinnen, dann folgten Jugenausbilderinnen und “Fallschirmspringerinnen”. Zuletzt kamen Männer aus allen Teilen der Welt um uns die bombardieren, uns zu töten, und uns eine Lektion in Unterwerfung und blindem Gehorsam zu erteilen.
Maha Hassan

Pas de policier dans la tête

Pas de policier dans la tête


Quels ont été vos débuts en littérature?
J’avais 15 ans quand j’ai commencé à écrire. J’étais une gamine très révoltée. Plus tard, j’ai écrit un premier recueil de nouvelles érotiques que j’ai envoyé à un éditeur : il était intéressé, mais rien ne pouvait être publié sans l’autorisation du pouvoir politique. Le texte a donc été interdit, car jugé trop libéral.
Le mesuriez-vous?
Non. Il me semblait que dans un État « laïque », tant que je n’abordais pas la question politique, ça passerait. Quand j’ai vu que ce n’était pas le cas, j’ai pris une des nouvelles du recueil et je l’ai envoyée par la poste à une revue libanaise très réputée, connue pour ses positions antireligieuses. Nous étions en 1993. Quelques mois après, un ami qui revenait du Liban m’a rapporté un exemplaire : mon texte avait été publié et mon nom était sur la couverture. Cette situation était très étrange : d’un côté, j’étais à Alep, portant le voile dans une ville où les femmes se cachent les yeux et les mains, et quelque part à Beyrouth, une revue publiait une de mes nouvelles intitulée Les Doigts de la mariée et qui parlait de masturbation.
Votre famille s’intéressait-elle à la littérature?
Pas du tout. Je suis née dans une famille analphabète. Nous n’avions pas un livre à la maison. Chez nous, ce qui comptait, c’était la politique, de sorte qu’on pouvait me juger moralement, mais pas artistiquement. Peut-être que cela m’a aidée. Peut-être que si j’avais eu un père écrivain, je n’aurais pas osé écrire. Mon père était un homme de gauche. Mes premières lectures, c’était Marx. J’avais une photo de Lénine dans ma chambre. Ensuite, j’ai découvert L’Être et le Néant et à partir de là, tout un pan de la littérature française. Le premier livre que j’ai acheté moi-même, c’était L’Étranger de Camus. Le seul titre me touchait énormément.
Parce que vous êtes kurde?
Oui, kurde parmi les Arabes. Pour les Kurdes, je ne suis pas kurde parce que je parle arabe et pour les Arabes, je ne suis pas arabe parce que je suis kurde. Très tôt, je me suis exilée dans une littérature française traduite en arabe. Mais ma grand-mère, que je considère comme ma mère spirituelle, était sage-femme et ne parlait pas arabe : elle racontait des histoires en kurde. Une langue que je comprenais, mais sans la maîtriser et sans pouvoir l’apprendre à l’école… La langue arabe est donc ma mère adoptive, celle qui m’a soignée. Au fond de moi, cependant, je ne me sens pas arabe… Kurde non plus. Je me sens comme une bâtarde.
Votre premier roman, L’Infini. Récit de l’autre, est finalement publié en Syrie en 1995. Quelle a été sa réception?
Cette fois-là, j’ai obtenu l’autorisation du pouvoir politique, mais j’ai été condamnée par le milieu littéraire. On m’a reproché que ce ne soit pas un roman, que ce ne soit pas linéaire, que ce soit composite… Certains écrivains reconnus ont prétendu que ça ressemblait à une bagnole avec un moteur de Peugeot et des portes de Mercedes. On aurait préféré que je fasse des romans sentimentaux. Non seulement j’étais kurde, cataloguée comme auteure érotique, mais aussi attaquée pour mes partis pris esthétiques.
En 2005, Human Rights Watch vous a décerné le prix Hellman-Hammett pour votre engagement en faveur de la liberté d’expression. Vous avez alors passé un an en résidence dans la maison d’Anne Franck. Quel souvenir en gardez-vous?
Cela a été extraordinaire. Pour moi qui suis une femme venue de la guerre, c’était comme un signe du destin : une main tendue pour poursuivre en littérature.
Vous avez aujourd’hui le projet d’écrire en français. Pourquoi?
Mes livres ne sont pas traduits en français et cela reste pour moi un grand obstacle : je suis mariée avec un Français, j’habite à Morlaix, tous mes amis sont Français… J’ai envie d’être lue par ces personnes. Mais aujourd’hui, les traductions s’opèrent essentiellement selon un agenda politique : l’Occident choisit les textes arabes à traduire au gré de l’actualité et non en fonction de critères littéraires. C’est pourquoi je désire aujourd’hui écrire directement en français. Et puis le français, c’est la langue de la liberté. Quand je m’exprime en arabe, il y a toujours une autocensure qui s’exerce. Quand je parle en français, il n’y a place pour aucun policier dans ma tête.

jeudi 21 mars 2019

Nothing is more precious than freedom

Nothing is more precious than freedom’
An interview with Maha Hassan

I would like to start with a question about how you began. You studied law and politics and then devoted yourself to writing novels, how did you take the decision to change? And why?
My law studies had no effect on my writings. I never worked in the fields I majored in. I had started with writing years before. It was politics that led me to start writing. I was born in a fertile political environment, a Marxist father, and a Kurdish family divided between the political loyalties of Kurdish nationalist parties and left-wing opposition parties. From here, I opened my consciousness to challenge the status quo.

Because I am a woman, that provided me with many of the negative experiences that we as women face, living with many social and political contractions. Through these experiences I have found writing as my way to express my anger at that time. In other words, writing was at first a protest against the social and political conditions surrounding me.
Your first novel bears the name “infinity”. This name is interesting, tell us about it?
It is true that “infinity” was the first printed book I published, but I started publishing it years ago, and I had an important and harsh experience with Arab newspapers and magazines.
I began to write a short story, choosing as a kind of protest erotic writing, so I got published in the controversial Lebanese magazine Al Naqed, my story which was considered shameless by the male dominated environment. My name appeared on the cover of the magazine, Al-Qasim, al-Naqih al-Nayhum and others. The Al Naqed journal was critical of fundamentalist culture and opposed to religious thinking. The censorship in Syria refused to publish my collections of stories. A moral social uproar was raised around me in the ultra-Orthodox cultural milieu in Aleppo. I protested and went away from writing until I came back years later with “infinity”, which carries my imaginations of the composition of a human of many facets. This was linked to the fact that I was a product of many cultures, being born in a Kurdish, leftist, Islamist, repressive environment for women regardless of their culture.
As a Syrian Kurdish woman living in France, what do you miss in your country?
I experienced exile in two phases, the first upon my arrival alone in 2004, after which I began to integrate into French society. I acquired the nationality of this country, which I embraced and protected. I thought of going to Syria to test this country after I have been absent from it for many years. Then the uprising started, and a huge asylum seeker wave happened. A large portion of the Syrians I know moved to France and Europe in general.
That is why I lived the exile twice. My first exile consisted of my personal memories: my life, my friends, my neighbours, my mother, my sisters, the fava bean (“fool”) dish on Friday, which was a holy ritual there in Aleppo, and all the intimate details I used to miss during my first years of exile. Then came the fierce, violent exile, the exile of war, killing my feelings and desires that seemed naive, nostalgia for the bowl of fava beans, or my mother’s coffee, or morning songs, or the phallus tree on the roof of our house. The war killed my neighbours and friends and destroyed my house in Aleppo and killed the fava bean (“fool”) dish maker. The gardens were uprooted. My nostalgia became big and impossible, only nostalgia for walking in the streets of Aleppo.
As a follow up to the previous question, what are the new opportunities and experiences available to you in foreign countries as a woman and a novelist?
France gave me a new existence, I was born again here, I received a French birth certificate, my new nationality, I obtained safety here. It has always been my dream to have a safe place to write. This dream came true to me in France, my chosen country, which assured me the freedom that made me give up all the privileges that I had in Syria, such as family protection, social warmth, and an emotional environment. This freedom also enabled me to endure the harshness of life in Paris.

From France I took to the Arab world. Here in Paris, I wrote my first novel under the new freedom, called “Umbilical cord” which got me on the list for the “Poker prize”. From this point my accomplishments followed. If I had stayed in Syria, I would not have written, nor would I have achieved my presence in the Arab cultural scene that I entered after leaving Syria. The Arab world and the Arab reader got to know me through my presence in France, while the Syrian censorship and its authoritarian institutions prevented me from publishing.
In 2011, your novel “Umbilical cord” was nominated for the International Prize for Arabic Fiction “Booker”. Tell us a little what does this mean to you?
After I was prevented from publishing my books in Syria due to censorship, I had to go to Beirut to publish my novels. My name’s listing on the Booker’s list restored my honour against the political censorship. This achievement made me popular in the Arab world, and also in Syria, where the Syrian reader had been unaware of the existence of my writings. The Booker prize gave my novels the right to appear in Syria and the Arab world.
In addition to writing novels, what are your other writing projects? What languages do you write in or translate your work into?
My novel “Drums of Love” was published in Italian, and I signed a contract to have my novel “Metro of Aleppo” also translated into Italian. Next year, I will publish a novel, “Good morning war,” in French. I have a draft novel written in French directly, I expect to finish at the end of this year.
Your book Metro of Aleppo is on the list of candidates for the Sheikh Zayed Book Award. Tell us what Aleppo means to you, and what do you miss most about the city?
The old roofs of the old houses full of flowers, the old narrow alleyways and their special black tiles. The various smells of food that we smell and we try to predict what kind of food it is through the smell. The old markets and products not found in Europe such as henna, bath scrubbing bags, Aleppo laurel soap, and thyme. On Friday morning, the curved jasmine dangling outside the walls of the houses and the heavy flow of traffic on the street. All these details and others, I try to include in my writings to restore the fresh smells of Aleppo which do not resemble any smells in any other city. I miss everything in Aleppo, its smells and music. People sitting in front of open houses, the neighbour’s conversations through windows and balconies, and a lot of things. While not forgetting the dark side of life in Syria, such as repression and restrictions of freedom of both women and men, as well as political, religious and military domination and all that the world has got to know about the curtailment of individual and societal freedoms  in Syria.
You wrote about women in the Arab world and honour crimes in “Girls of the Prairie,” what is your implied message of this novel?
This novel was a turning point in my narrative and my themes. I used to avoid violence against women in my writings, and I was afraid of falling into topics that were closer to the popular press rather than novels. However, my presence in France provided me with space for reflection, to look at the past of the abandoned in Syria, and to remember the stories of women who were tormented, and to hear the voices of women who were murdered and buried in silence. I discovered that I had to confront this thorny subject. I invented an aesthetic method by resorting to fiction through which I was able to address this subject. In my novel I observe and convey what I see and feel, and leave it to the reader interpret. Perhaps the implicit message of the novel is to me personally: that I should not forget that I am a woman, and because I am a woman who has suffered the problems of that community, I became a writer.
What are your hopes for Syria and the new Syrian generation?
Freedom. This small word is the eternal obsession. Freedom opens doors of thinking, produces solutions, creates creativity, and changes the world. Nothing is more precious than freedom, and its path is difficult. It begins with the confrontation of individual taboos planted over many generations within each of us, where we are limited by sanctions that turn into solid walls and that are difficult to overcome later. Freedom is the dismantling of the self first, and the other and all the vocabulary surrounding us, which is full of suppression, prohibition and criminalisation. Freedom is the first step towards maturity, both at the the individual level and at the community level.